Rubrica “Manager con filosofia”: La cultura del dato: perché i manager devono diventare data-driven

SPEGEA – Business School
Rubrica: Manager con filosofia
Articolo n. 1 | Ottobre 2025
Titolo: La cultura del dato: perché i manager devono diventare data-driven
Autore: G. Davide Scalzo

La cultura del dato: perché i manager devono diventare data-driven


“È il destino della nostra epoca, con la razionalizzazione e l’intellettualizzazione a essa propria, e soprattutto col suo disincantamento del mondo […]”

Max Weber, La scienza come professione (1919)

All’inizio del XX secolo, Max Weber osservava come la modernità avesse avviato un irrefrenabile processo di razionalizzazione della vita sociale: un lento ma inesorabile spostamento da un mondo governato da valori, miti e tradizioni verso uno fondato su calcolo, metodo e previsione.
Con la celebre espressione “disincantamento del mondo”, il sociologo descriveva questa trasformazione come la progressiva perdita del mistero e dell’imprevedibilità nelle azioni umane, sostituite da una fiducia crescente nella ragione, nella scienza e nella capacità di organizzare la realtà attraverso strumenti razionali.

Quando Weber scriveva queste parole, non poteva di certo immaginare big data, le dashboard di business intelligence o gli algoritmi predittivi. Eppure, la sua riflessione sulla razionalizzazione del mondo moderno anticipa perfettamente il nostro tempo: un’epoca in cui ogni decisione, personale o aziendale, può essere misurata, analizzata e tradotta in un dato quantitativo. Le decisioni che un tempo si basavano sull’intuito o sull’esperienza personale, oggi vengono affiancate, o spesso sostituite, dall’analisi di numeri, dei trend, degli algoritmi. È il nuovo volto della razionalizzazione, un mondo in cui ogni scelta, aziendale o individuale, può essere misurata, tracciata e proiettata. Oggi la logica del dato è diventata la grammatica della realtà. Ogni click, ogni transazione, ogni interazione digitale lascia una traccia che compone un linguaggio fatto di metriche e indicatori e le organizzazioni più competitive non si limitano a raccoglierle: le interpretano, le confrontano e le trasformano in conoscenza strategica. Essere data-driven non significa venerare il numero, ma comprenderlo come forma contemporanea della razionalità. Weber descriveva la società moderna come “disincantata”: un mondo in cui magia, rituali e superstizioni cedono il posto al calcolo e l’intuizione alla previsione. Nel management di oggi, questa razionalità si manifesta nella fiducia nella misurazione, nella ricerca di oggettività e nella volontà di governare la complessità attraverso modelli e dati. L’impresa data-driven è, in fondo, la realizzazione concreta di quella che il sociologo chiamava razionalità strumentale (Zweckrationalität): l’uso di mezzi efficienti per il raggiungimento di determinati fini. Tuttavia, proprio qui si nasconde la sfida più profonda: come evitare che il calcolo sostituisca il giudizio? Come mantenere il dato al servizio dell’uomo e non il contrario?

La risposta sta nella cultura del dato, non la mera competenza tecnica, ma una vera e propria forma mentis, essere data-driven significa saper leggere il dato, ma anche saperlo interrogare. Statistiche, numeri, percentuali da sole sono una singola fotografia, non comunicano realmente il “perché” di un fenomeno; il compito di un manager consapevole è quello di non accettare la verità statistica come definitiva: la deve interpretare,  connetterla al contesto, tradurre  in decisioni che tengano conto della complessità reale. Questo è ciò che i teorici del management contemporaneo definiscono data literacy: la capacità di dare significato ai numeri, comprendendone la provenienza, i limiti e le implicazioni. Perché ogni dato è una costruzione, non una rivelazione, dietro ogni KPI esistono scelte metodologiche, criteri di raccolta, e inevitabili bias cognitivi. In questa prospettiva, la cultura del dato si fa razionalità riflessiva, non cieca. Il manager data-driven si interroga sul “perché” dei trend, valuta le fonti prima degli output e costruisce scenari, non dogmi. Non si affida all’algoritmo come oracolo, ma come strumento: una bussola che richiede sempre l’interpretazione umana. Le imprese più evolute, oggi, non cercano solo data analysts o data scientists, ma leader capaci di coniugare rigore e visione, competenza analitica e intuizione strategica. La cultura del dato, in questo senso, è anche un atto etico: significa assumersi la responsabilità di leggere la realtà senza semplificarla o piegarla ai propri pregiudizi. Essere data-driven, dunque, non vuol dire sostituire l’esperienza con un calcolo, ma affiancare la visione alla verifica. È la naturale evoluzione della razionalità weberiana applicata all’impresa: un equilibrio tra metodo e visione, tra struttura e sensibilità. In un mondo dove ogni decisione può essere misurata, la vera leadership si riconosce nella capacità di dare senso ai numeri, perché i dati sono tanti, ma solo chi ha cultura sa come sfruttarli.

Per questo la formazione manageriale deve oggi evolversi insieme al linguaggio dei dati. Non basta più “sapere leggere un report”: serve saper tradurre l’informazione in visione strategica, e la metrica in azione. In una Business School moderna, la cultura del dato non può essere solo una competenza tecnica, ma deve cristallizzarsi come una dimensione della leadership: una chiave per guidare persone, innovazione e decisioni con consapevolezza. Solo chi coltiva un pensiero critico e analitico al tempo stesso, può davvero trasformare il dato in valore e la conoscenza in futuro.

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